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MORIRE FELICI? Lasciare la vita senza paura.


HANS KÜNG

L' ultima pubblicazione di Hans Küng, da sempre considerato “teologo del dissenso cattolico”, -oramai 87enne, malato di Parkinson- ancora una volta smuove le acque di un grande dibattito contemporaneo, quello legato all'accompagnamento di malati inguaribili che desiderano essere aiutati a morire. Per la prima volta un teologo cattolico si esprime apertamente a favore di ciò, cominciando col precisare che la parola “eutanasia” è del tutto inadeguata a render ragione di un vissuto così importante per la persona, quale quello del congedo dalla vita nel tempo.

Meglio parlare di “autodeterminazione”. Meglio, semmai parlare di “eutanasia compassionevole”.

Egli infatti sostiene che morire dignitosamente sia un diritto inalienabile. Dal diritto alla vita non deriva in nessun caso il dovere della vita, o il dovere di continuare a vivere in ogni circostanza. L'aiuto a morire va inteso come estremo aiuto a vivere. Dio ha donato all'uomo la vita perché ne faccia un uso responsabile e, in determinate e particolari circostanze, restituirgliela è un atto di responsabilità.

 “Lo dice anche il Catechismo. Ciascuno di noi è responsabile della propria vita. E perché dovrebbe cessare di esserlo proprio nell'ultima fase dell'esistenza? La responsabilità esiste fino in fondo e io ho tutte le intenzioni di assumerla.

 Egli può affermare questo proprio da credente: “Sono del parere che la vita terrena non sia tutto. Ciò si deve alla convinzione di fede secondo cui non mi dissolverò nel nulla. Capisco le persone che, non credendo nella vita eterna, hanno paura del non-essere. Io, invece, sono persuaso che non svanirò nel nulla, bensì entrerò in una realtà ultima. Per così dire, andrò verso l'interno, nella realtà più profonda in termini relativi e assoluti, e lì troverò nuova vita. E' questa mia convinzione di fede, che naturalmente mi permette di essere un tantino più disinvolto riguardo alla lunghezza di questa vita e alla sua sopportazione.

Secondo alcuni medici con cui ho parlato negli ultimi tempi, a volte è sorprendente come le persone vogliano a tutti i costi vivere più a lungo. Persino i teologi, mi hanno riferito...”.

 Il nostro autore auspica anche una Chiesa lungimirante, capace di aiutare una persona a morire bene, anziché   limitarsi a dare appena l'estrema Unzione.

L'ammissibilità etica di quella che sarebbe una “eutanasia compassionevole” affonda le radici, in ultima analisi, in una determinata concezione di Dio, capace di addurre ragioni alla fiducia nel Creatore. Se Dio vuole che l'uomo abbia fiducia in Lui, non può impedirgli di disporre della propria vita qualora egli non veda altra via d'uscita da una sofferenza insopportabile. Questo è un punto fondamentale: Küng non sta assolutamente promuovendo il suicidio, e chi leggerà il testo avrà modo di rendersene ben conto. Egli insiste molto sulla “dignità del morire” e la suaè una delle pochissime prese di posizione delle teologia cattolica a favore del diritto di autodeterminazione nell'ultimo periodo della vita.

E' davvero una via di mezzo tra posizioni estreme: infatti Küng vincola l'ammissibilità dell'eutanasia a condizioni rigorose. Per esempio esclude categoricamente il suicidio per semplice stanchezza nei confronti della vita e in assenza di malattie o infermità gravi. Pretende delle istanze di controllo mediche per impedire abusi. E lega l'autodeterminazione alla responsabilità verso gli altri. Si tratta di una scelta responsabile. Il diretto interessato deve tener presenti le conseguenze che ne deriveranno per gli altri, ad esempio la sua famiglia.

 Alcuni teologi – prosegue l'autore - sostengono che ogni essere umano deve resistere sino alla “fine stabilita” e che non può restituire la vita “prematuramente”. Ma il buon Dio ha forse “deciso” la riduzione della vita umana alla mera dimensione biologico-vegetativa, con tanto di incontinenza, catetere, sonda gastrica e ferite suppuranti? Oggigiorno, molti si chiedono perché la restituzione responsabile di una vita distrutta definitivamente da sofferenze insopportabili debba esser per forza considerata “prematura”. Non sempre la morte è nemica dell'essere umano.

(S. Ambrogio ha scritto, nel suo “De bono mortis”, proprio questo).

E' chiaro, tuttavia, che non può esistere una soluzione generale valida per tutti. Bisognerebbe invece lasciare la libera decisione alla discrezione del singolo.

Il testo è davvero ben fatto ed argomentato: vi si trova il punto di vista dell'autore riguardo a tante delle potenziali domande che il lettore può porsi: per esempio sui limiti e l'utilità della medicina palliativa, sulla necessità di una medicina aperta alla dimensione religiosa.

Interessante è la risposta che Kung dà alla giornalista che gli domanda se in questo modo, accettando questo “nuovo” pensiero sul fine vita, non vi sia  il rischio di far diventare il suicidio socialmente accettabile: “In Svizzera il numero dei suicidi violenti è diminuito in misura direttamente proporzionale all'incremento di quelli assistiti.” Questo dovrebbe indurci a meditare.

Non si può portare il dogma della “sacralità della vita” fino all’estremo della disumanità.

 QUALI RIFLESSIONI POSSIAMO FARE?

 E' lecito essere favorevoli all'autodeterminazione anche nel caso della morte, non solo sulla spinta del desiderio di garantire l'autonomia umana (responsabilità), ma anche su quella di una profonda fiducia nella realtà di Dio.

  • Certo tutto questo richiede un mutamento di paradigma nella visione della vita umana, cioè dell'inizio e della fine dell'esistenza. Impariamo –il credente a dire il vero dovrebbe già saperlo fare– a considerare la vita come composta anche dall'Oltre, dall'aldilà. A considerare la nostra identità (chi siamo) come raggiungibile alla fine della nostra vita, quando Dio stesso ci darà compimento... Non dover per forza ottenere tutto dalla vita terrena, considerandosi magari dei “falliti” se non si raggiungono gli obiettivi che vanno per la maggiore.
  • Impariamo a relativizzare tutto e, proprio per questo, a gustarlo per quel che ci può dare, senza pretendere –più o meno consapevolmente– il Paradiso in terra, da qualcosa o da qualcuno. Tenere il cuore in alto, gettando l'àncora –come dicevano i primi cristiani– nell'aldilà. Non si tratta di un “fuggire da” ma di un “andare verso”.

Quando ci si incontra tra conoscenti, si è avvezzi a dire: ”Ne è passato di tempo, i figli crescono e noi...invecchiamo”; in realtà si potrebbe dire: “Ogni giorno che passa mi avvicino al Cielo!”, quindi un sentirsi chiamati, ogni giorno che passa, a diventare un pochino più maturi per il Cielo.

E' improponibile, folle? Lo hanno fatto i Santi. Anche ciascuno di noi è chiamato alla Santità!

 

Monica Cornali e don Luigino Bonato

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